19 Dicembre 2016 Stefano Tommasi, di Tommasi Wine, incontra Cassiopea
Tradizione, innovazione e natura: così si esporta la magia del vino italiano.
Da oltre cent’anni custodisce i vigneti della Valpolicella, e arrivata alla quarta generazione l’azienda esporta il 90 per cento dei tre milioni di bottiglie prodotte. Attiva nei terreni più vocati d’Italia, guarda all’enoturismo e scopre parole nuove per trasmettere le emozioni.
Stefano Tommasi, sposato con Anna, ha tre figli: Chiara, Francesco e Lucia. Oggi è responsabile commerciale per Verona e Trentino Alto Adige e segue le pubbliche relazioni di Tommasi Family Estates. Fino al 1995, da quando ha iniziato ad occuparsi della rete commerciale a tempo pieno, in azienda Stefano ci passava sempre “di corsa”. Perché Stefano è il talento sportivo della famiglia Tommasi: ha giocato in varie squadre di calcio tra cui l’Hellas Verona, la squadra cittadina, arrivando al campionato di serie A nel 1991-92. A 14 anni, nel 1986, era entrato nelle giovanili del Verona, coltivando la sua attitudine al calcio e allenandosi non appena poteva mentre seguiva gli studi di ragioneria. “Amavo il calcio e facevo tutto in funzione dello sport – dice –: ho fatto anche il servizio militare nella Compagnia Atleti. Poi ho giocato nella Ternana, e infine nel Legnago”.
A Verona il vino è un pilastro dell’economia. Com’è nata la vostra avventura familiare?
“Il rapporto con il territorio è sicuramente una garanzia di qualità, e noi ci riconosciamo in questa visione: non produciamo solo nell’area tradizionale veronese, ma abbiamo scelto di investire anche in altre zone pregiate d’Italia. Fu il bisnonno Giacomo, nel 1902, a vedere nella viticoltura una possibilità di dare lavoro ai figli. Scelse Pedemonte per insediarsi con la moglie e gli otto figli. Due di loro, mio nonno Angelo e il fratello Alfonso, si dedicarono alla mezzadria e alla vendita di parte del vino, insieme ad altri due fratelli. Trasportavano il vino col carro fino alle osterie di San Zeno e Parona”.
Quindi era un’azienda …minimalista: ma era solo l’inizio della storia.
“Sì, l’avvio non poteva che essere rivolto al territorio. Ma appena possibile acquistarono e coltivarono a vigneto alcuni terreni vicini, che oggi rappresentano le nostre radici storiche. Anche perché vi conservarono le “marogne”, i classici muri a secco della Valpolicella, e le viti a pergola veronese, in grado di valorizzare le caratteristiche morfologiche del terreno, che va dal limo argilloso a quello sassoso verso il Garda. Già quella era volontà di crescere senza stravolgere: lavoravano in campagna ma andavano a scuola, si alternavano tra aule e stalle, anzi, vigneti. Proprio per migliorare il valore di quello che possiamo definire il loro core business adottavano gli strumenti più adatti alla difficile viticoltura di collina”.
Le nuove generazioni passano così da un’economia agricola a una struttura d’impresa.
“È stata una crescita naturale: la terza generazione, con papà Franco e i fratelli Dario, Ezio e Sergio, capì che il vino dava una certa sicurezza, anche perché nel frattempo aumentava la forza lavoro. Venne realizzata una cantina nuova, sempre con imbottigliamento a mano, si cominciava a diffondere l’interesse per vini come Amarone, Recioto, Soave o Bardolino, rosso e bianco si vendevano a damigiane o anche in formato da tavola. Negli anni Sessanta un altro salto di qualità, con i primi Doc e le etichette pregiate a testimoniare la qualità e a sostenere l’immagine. Negli anni Settanta un nuovo ampliamento della cantina ha favorito l’evoluzione verso una vera e propria azienda, presente alle prime fiere e, anche grazie al Vinitaly, in grado di muovere i primi passi all’estero”.
Come famiglia siete sempre stati presenti in azienda, e non solo negli uffici.
“In effetti il nucleo familiare allargato ha costituito a lungo la maggior parte del personale e non ha mai fatto mancare il suo impegno diretto. Certo, nel tempo sono entrate le prime segretarie, gli autisti per le consegne, qualche parente acquisito lavorava in campagna. Ma c’erano le donne di casa che curavano l’imbottigliamento. “Esserci” in prima persona è un aspetto del nostro modo di fare impresa e anche una forma di rispetto verso i clienti: “In casa degli altri si va con i guanti bianchi”, si diceva. E voleva dire anche ospitalità. Ricordo che i clienti in visita alla cantina notavano come tutto fosse pulito e in ordine: insomma, si faceva lean production prima ancora di inventare il concetto… Si fidelizzava il cliente giù in taverna con salame e polenta, e gli ordini erano garantiti per tutto l’anno”.
E poi, con la quarta generazione, una forte crescita e la diversificazione.
“I giovani sono entrati a pieno titolo in azienda verso il 1997, trovando già una molteplicità di investimenti, come ad esempio Villa Quaranta Wine Hotel & SPA, anche se l’ospitalità è sempre stata nel nostro orizzonte di interessi. Nella viticoltura poi è aumentata la quantità di terra lavorata, cresciuta oggi di oltre dieci volte rispetto ai 45 ettari del 1902. Prima gli acquisti nella zona tradizionale, per consolidare l’azienda, e quindi in tutta Italia. A proposito della quarta generazione, oggi siamo in nove tra fratelli e cugini dei due rami familiari. Per tutti è stata una libera scelta, certo non un obbligo: io giocavo a calcio ma fin da piccolo venivo in cantina d’estate, a dare una mano e a imparare valori come umiltà, concretezza, serietà. E il rispetto: per i clienti e soprattutto per chi in campagna ci lavora”.
Si parlava di ospitalità: oltre il vino siete attenti al mondo alberghiero e alla ristorazione: ci sono prospettive in questo ambito?
“Da questo punto di vista l’Italia è davvero unica. C’è un mondo da scoprire oltre la nostra attività primaria in viticoltura: a Verona ad esempio siamo presenti con l’albergo Mazzanti e l’Antico Caffè Dante, ma a Pitigliano, nella Maremma non lontano da Grosseto, abbiamo già l’agriturismo Poggio al Tufo e guardiamo alle masserie della Puglia. L’enoturismo, con il suo contorno di wine hotel e spa, è un’opportunità ancora tutta da esplorare, non solo per l’aspetto commerciale ma anche per contribuire alla valorizzazione del territorio”.
Questa visione può valere anche per le terre veronesi che vi hanno visto nascere?
“Sì, purché la Valpolicella sappia cogliere le nuove occasioni. Occorre fare più promozione e farla insieme, condividendo gli intenti, come abbiamo cominciato a fare con le Famiglie dell’Amarone. Preservare la natura e un ambiente unico, presentare ai clienti più offerte diverse tra loro, valorizzare la presenza dei grandi produttori ma anche delle numerose piccole cantine, che è un percorso di evoluzione compiuto da molti nostri ex conferitori. Noi, nel frattempo, crediamo nella costruzione di una filiera che vada dal terreno fino alla bottiglia: tanto che oggi il vino è integralmente di nostra produzione”.
Torniamo al progetto di sviluppo dell’azienda. Cos’è cambiato dal 1997 in poi?
“Il nostro progetto si è concretizzato con l’acquisto dei migliori terreni anche fuori dal Veneto, e ha dato progressivamente vita all’evoluzione dell’azienda in Tommasi Family Estate. Una volta che i nuovi terreni hanno cominciato a entrare in produzione, abbiamo fatto un salto di qualità anche nella comunicazione e nell’immagine. E la diversificazione nell’ospitalità sta dando spessore e continuità al progetto, così come la costante ricerca di opportunità sia sul territorio locale che nel resto d’Italia, andando a collocarci nelle aree più vocate”.
Anche l’export è quasi un passaggio obbligato per un’azienda del Made in Italy.
“È senz’altro una sfida per ogni brand che voglia crescere e diventare più forte e presente sui mercati. Inoltre aver diversificato le etichette è un vantaggio in più, perché ci consente di esportare con un portafoglio territoriale variegato. In ogni caso l’estero rappresenta il 90 per cento del fatturato, anche perché in Italia si tende a consumare il vino della propria zona. Siamo presenti in particolare negli Stati Uniti, in Canada e Paesi Scandinavi, mentre stanno riprendendosi bene Germania e Paesi dell’Est. In Oriente crescono la Cina e il Sud Est Asiatico. Siamo soddisfatti: chiudiamo il 2016 con un fatturato di 26 milioni, abbiamo 230 dipendenti tra le tenute e l’ospitalità e produciamo circa 3 milioni di bottiglie”.
Tentiamo una sintesi di questi cent’anni e passa di storia: tradizione e innovazione?
“Questo sicuramente. E poi anche il senso della famiglia, il continuare a credere nel lavoro e nella forza del territorio, il rispetto per le persone e per l’ambiente, al quale dedichiamo sempre più attenzione, con un forte impegno per la sostenibilità della campagna, l’utilizzo di energie pulite, la scelta di materiali ecocompatibili. Innovare è indispensabile: noi siamo tradizionalisti e aperti al futuro, perché il modello resta ma gli strumenti cambiano. Come il modo di comunicare, che indirizza sempre più i consumatori: siamo sinceri, oggi che tutti i vini sono fatti bene ci si batte sul prezzo o sulla narrazione. Per questo non si vende solo il vino, ma il “racconto” del vino. Anche se in realtà dando valore alle emozioni, alla storia, alle origini e al territorio si sta tornando un po’ a casa. Sì, al salame con la polenta”.