26 Novembre 2015 Carlo De Paoli, di In Job, incontra Cassiopea
Trovate che cosa vi rende unici. E poi ricordatevi che il cambiamento è vita.
Tra poco In Job compirà 15 anni, ma invece di fare bilanci disegna nuovi scenari…
“Per il sistema economico e per noi stessi ci sono stati anni buoni e anni meno buoni. E la crisi ha mostrato chiaramente come si sono trasformati il mercato del lavoro e l’approccio delle aziende, qual è stata la reazione. Nel nostro settore è cambiato praticamente tutto. Già in precedenza i ritmi di trasformazione erano rapidi, ma oggi inseguiamo un’economia velocissima e – posso dirlo? – perfino un po’ schizzata. Morale: se vuoi stare sul mercato devi cambiare. Il mutamento è doloroso e difficile da far assorbire a chi in azienda crede di aver trovato una propria area di comfort. Imboccare la strada nuova non è mai comodo”.
E In Job non sembra avere alcuna voglia di mettersi comoda a misurare il successo.
“Perché il cambiamento è vita. Quando abbiamo lasciato il primo profilo di business legato alle cosiddette “tute blu” ci siamo dedicati ai professionisti per lo sviluppo internazionale, e ci siamo accorti che era una strategia facile da raccontare ma che richiedeva un impegno enorme, perché il mercato non sta mai fermo. Oggi l’obiettivo è mettere i migliori talenti a disposizione delle aziende top e favorire il loro successo, con un reciproco vantaggio”.
Quali sono i numeri aggiornati di In Job? Dove siete presenti sui mercati esteri?
“Forniamo il nostro servizio alle aziende clienti in un numero crescente di specialità: dalla più classiche delle aree del made in Italy, cibo e bevande ma anche moda e lusso, fino alle tradizionali esigenze dell’industria e dei servizi professionali. Il fatturato ha raggiunto i 60 milioni di euro, abbiamo oltre un migliaio di clienti e siamo presenti con venti uffici in sei nazioni: Polonia, Russia, Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda e Cina, cui nel 2016 si aggiungerà Monaco per la Germania. Abbiamo un centinaio di addetti, e stiamo ancora crescendo”.
Gli imprenditori sostengono che l’eredità della crisi darà una maggiore complessità.
“È vero, e lo abbiamo imparato dovendo gestire il business con i nostri professionisti da Shanghai a Houston lungo tutto l’arco delle 24 ore. Credo che ogni azienda debba trovare nel proprio mercato e nelle proprie possibilità un ruolo che le dia un senso, altrimenti si è solo una fotocopia sbiadita del mercato di massa, che richiede una mentalità differente. La scelta è essere leader nel prezzo o specializzarsi. Un’azienda deve capire qual è la propria unicità e fare di tutto per distinguersi dagli altri. Come impresa italiana ci siamo chiesti dove trovare uno spazio che ci rendesse unici: ci siamo risposti che non poteva che essere l’internazionalizzazione, un elemento distintivo cui abbiamo aggiunto la cura per il middle management e nel fornire ai clienti lo staff professionale. Tutto bene? No, perché quando poi arrivi a New York scopri che di aziende come te ce ne sono in giro a pacchi…”
Una bella doccia fredda. E quindi che cosa può renderci specifici come italiani?
“Un buon modo può essere cominciare dall’analisi dei concorrenti: magari sono fortissimi sul territorio ma non globalizzati, o al contrario sono globali ma non conoscono il mercato locale. Ma soprattutto noi abbiamo uno stile, la qualità unica del made in Italy nei rapporti e nella gestione. E vai avanti così, continui a cercare elementi di unicità, la creatività e la capacità di fare cose belle, il vantaggio competitivo: come avere una boutique ma aperta in tutto il mondo. Col tempo abbiamo imparato a lavorare tra colleghi, siamo un piccolo team ma fortissimo nell’interazione, una qualità tutt’altro che scontata”.
Far crescere qualità e competenze dei giovani è un investimento che paga?
“Continuo a crederci. Spesso non si fa più selezione ma ci si limita a gestire le persone, io invece voglio fare selezione in modo innovativo. Servono strumenti, competenze, visibilità sul web per richiamare i migliori. Abbiamo un team di ricerca e selezione, si fa recruiting a livello anche internazionale qui da Verona per valutare attitudini, integrabilità, capacità di progetto. Ci siamo strutturati per raggiungere un risultato: la persona giusta per l’azienda che ne ha bisogno, in base ai contratti, ai clienti, alle esigenze dei settori e dei periodi”.
Selezione a parte, quanto conta la sua esperienza? Lei è indispensabile per In Job?
“Cercavamo negli Stati Uniti un venditore per piazzare aceto di qualità, ma ci proponevano uno che vendeva olio, tanto sembrava lo stesso. Invece no: quel che conta è la specificità del candidato. L’esperienza vale per queste cose, per costruire carriere dagli addetti junior fino ai quadri più alti. Ma non voglio dribblare la domanda. Quando le aziende crescono l’imprenditore deve imparare a delegare. Non dico fare un passo indietro ma concentrarsi su relazioni e strategia, non fare tutto da solo: oltre a una certa dimensione blocchi tutto. E se un’azienda sta ferma, muore. Se si muove, investe, cresce. È la sfida del mercato”.
La globalizzazione sembra comunque una scelta irreversibile. I pro e i contro?
“Molte aziende italiane hanno scelto di portare la produzione all’estero cercando ambienti più favorevoli dove fare impresa. Qualunque sia l’orientamento, spesso individuale, va detto che nell’ultimo decennio solo un’azienda italiana su dieci ha delocalizzato fuori dai confini europei, segno che le differenze linguistiche e culturali e la distanza geografica, anche ovviamente per i costi di trasporto, contano eccome. Tra i territori più battuti, oltre all’America Latina, agli Stati Uniti e all’area del Nordafrica, c’è sicuramente l’Asia.”
C’era una volta la Cina, ma oggi c’è ancora? Sembra che la crescita stia rallentando.
“La Cina è stata per anni davvero l’Eldorado o un ancora di salvezza per tante imprese, ma oggi non è più così conveniente: dipende dal cambio, dal rincaro dei terreni e dalla crescita dei salari. Non a caso alcune imprese tessili italiane stanno pensando di tornare in Italia, anche grazie ai vantaggi del Jobs Act e agli interventi rivolti a favorire il reshoring, ovvero il rimpatrio di attività industriali e servizi, che coinvolge da vicino anche il Veneto”.
Guardiamo più vicino a noi: quali opportunità per la produzione e il lavoro in Europa?
“Il nostro continente garantisce una burocrazia più snella. Siccome la vicinanza geografica conta, non sono poche le aziende italiane che hanno delocalizzato in Paesi come Svizzera, Germania, Francia, Austria e Spagna. Imprese attratte soprattutto da un quadro normativo chiaro, un terreno fertile per operare e norme sicuramente più efficienti di quelle italiane. Il risparmio a medio e lungo termine incide enormemente nella gestione di un’azienda”.
Anche i Balcani stanno diventando una destinazione sempre più interessante.
“Sono stabili e hanno un costo del lavoro più sostenibile. Ci sono molti grandi gruppi in Croazia, Bulgaria, Serbia, e 15 mila imprese insediate Romania in settori come commercio, edilizia, manifatturiero, agricoltura. Oggi Bucarest ha meno appeal: corruzione, sviluppo lento e meno lavoratori specializzati perché si sono trasferiti nell’Unione Europea. L’ultimo trend della delocalizzazione è l’Albania, con lavoro a costi competitivi, grande flessibilità e vicinanza geografica. Perché anche nella delocalizzazione, la sfida si gioca nei servizi”.
Secondo lei ci sono scelte che cambiano la vita, il destino di un’azienda?
“Dieci anni fa ho scelto di non lavorare con la pubblica amministrazione. Forse avrei fatto numeri importanti, ma con una redditività ridotta all’osso, sempre col dubbio se e quando mi pagheranno. Oggi posso investire e crescere perché ho la liquidità. Poi, si sa, fai delle scelte cui poi cerchi di restare coerente. Anche perché bisogna attendere che l’azienda si consolidi, non cedere nell’impazienza. A volte compri, a volte vendi, ma investi sempre”.
C’è una morale? O meglio, uno slogan nel quale vorrebbe che In Job si riconoscesse?
“Eccolo: il genio è fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione. E non è la ricetta motivazionale di un guru, ma una battuta di Philippe Noiret, il Perozzi del film Amici miei”.
Stefano Tenedini